Mappa storica delle antiche trattorie genovesi
Trattorie genovesi. Ogni epoca ha la sua età dell’oro e “le vecchi trattorie di una volta” rientrano a pieno titolo in questa categoria, ancora di più a Genova, dove con un po’ di attenzione e qualche indicazione giusta è possibile assaggiare antiche ricette anche in quelle aperte di recente nella rinascita del centro storico di Genova.
Ma com’erano e come si mangiava nelle vecchie trattorie di una volta? Un vecchio libro di Alessandro Molinari Pradelli “La Liguria com’era” (ed. Newton Compton) ci racconta una storia carica di memoria e sapori.
Intanto, occorre fare una premessa: il genovese di una volta preferiva pranzare e cenare a casa. Buona parte delle ricette che oggi possiamo trovare dal nostro panettiere (il pandolce, la pasqualina, il polpettone etc.) erano ricette gelosamente custodite da mogli madri, abilissime cuoche che mai e poi mai, avrebbero ceduto la loro misteriosa formula. Si mangiava per strada solo se era necessario e soprattutto il popolo si accalcava nelle friggitorie e nei forni alla ricerca di qualche delizia da assaporare velocemente. Piatto da asporto ante litteram, “street food” come si chiama adesso, erano fritti di pesciolini, molluschi, baccalà, frittelle d’erbe, farinate e torte.
Ovviamente, anche i signori avevano i loro spazi preferiti che erano gli alberghi dove gli avventori e i viaggiatori dotati di cospicua ricchezza potevano godere di tutte le comodità e di tutti i servizi. L’Hotel Smith che era il punto di riferimento degli inglesi a Genova, con l’affaccio a piazza Banco San Giorgio, rappresentava l’eleganza tipicamente britannica che tanto piacque agli operatori portuali genovesi (agenti marittimi, broker e spedizionieri). Poco lontano si trovava un altro albergo frequentatissimo all’epoca che già dal nome prometteva molto “Albergo della felicità” si chiamava e rispetto allo Smith aveva una clientela più eterogenea. Sottoripa era il regno delle osterie e trattorie, rispetto all’offerta cosmopolita di oggi era la cucina locale che la faceva da padrona indiscussa. Le più famose erano: “La trattoria delle donne”, “La trattoria del Dria”, “La trattoria della Pina”, “La trattoria del Monticelli” e “La trattoria della Scià Carlotta”. Erano quasi tutti seminterrati sotto il porticato, stanze minute negli ammezzati che sporgevano da una parte sulla piazza e dall’altra in Sottoripa.
Il menù della “Carlotta” consisteva in un un solo antipasto di muscoli, poi tra i primi la zuppa di pesce e le tagliatelle all’uovo, insieme al brodo e alla pasta al sugo e al pesto. I funghi erano una specialità della casa e per quello che riguardava il pesce, l’aragosta era affiancata alla Buridda e al pesce “allo scabeccio” (piatti quasi introvabili oggi per una ragione o per l’altra). Il piatto prelibato della Carlotta, donna energica presente sia in cucina che a far di conto, era la Pasqualina magnificata dal giornalista e scrittore genovese Giovanni Ansaldo che scrive proprio rivolgendosi alla Carlotta “Bisogna che difendiamo il nostro buon nome sin d’ora. Se no, come adesso dicono che l’America l’hanno scoperta gli spagnoli, di qui a due secoli diranno diranno che la torta pasqualina l’hanno inventata i milanesi”.
Non distante si trovava il “Ristorante san Giorgio” che affittava anche le camere a portuali, marittimi e piccoli commercianti. In questo ristorante ci si andava per un piatto che era la fortuna del posto: i carciofi alla Cristoforo Colombo. Tale era la bontà che il padrone del “Labò”, altro ristorante molto famoso con una caratteristica struttura in legno che si trovava in via Carlo Alberto (attuale via Gramsci), riuscì alla fine a recuperare la ricetta e proporre anche lui il gustosissimo piatto. Gli aristocratici che arrivavano in treno alla stazione di Genova Principe alloggiavano al “Majestic Savoy”, al “Londra Continentale” o al più moderno “Hotel Colombia”. Ci si arrivava dalla stazione attraverso un lungo corridoio sotterraneo che attraversava piazza Acquaverde e portava a sinistra all’ascensore del Savoia e a destra a quello del Continentale. Erano dotati di tutti i comfort e il Colombia, inaugurato nel 1929 s’impose per la modernità dei servizi. Acqua calda e fredda in tutte le stanze, ascensori, telefoni e telegrafo e addirittura un bar. Le grandi star e le figure polithce di prima grandezza andavano al Miramare mentre ci aveva un’economia limitata poteva trovare un letto comodo all’”Hotel Britannia” e all’hotel “de Londres”.
Ritornando alla cucina, all’”Hotel Unione” in Campetto valeva la pena fermarsi per il cappon magro che era realizzato secondo tutti i crismi mentre all’”Hotel Perelli” in vico Falamonica si gustavano i muscoli alla marinara e al “Caffè trattoria del Carlo Felice” gestito da Carlino Pescia si poteva assaggiare un raro intingolo di murena.
A Portoria in una trattoria che non poteva non chiamarsi “Balilla” dove si trovavano delle ottime trenette al pesto e “seppie in zimin”.
In piazza Marsala il “Ristorante del Rosso” proponeva il brodo di trippa, “la sbira”.
Il nome del piatto potrebbe derivare dal consumo quotidiano che ne facevano le guardie dell’antica repubblica (sbiri). In via Portoria ora scomparsa) all’angolo con via XX settembre c’era il “Cinotto” piatti tipici: troffie con le patate e “uova di fungo rosso” (sformato di funghi tagliati a fette e cotti in casseruola con olio, aglio e pepe…”.
In corso Buenos Aires si trovava il “Ristorante Gerolamo”, cucina tipicamente toscana. Le bottiglie di Chianti arrivavano alla stazione Brignole direttamente dalla Toscana, da Carmignano. Nel 1892 per le esposizioni colombiane venne allestito un grande ristorante a forma d’uovo chiamato “l’uovo di Colombo” che offriva ogni ben di Dio della cucina internazionale. In Darsena, “Bazarin” proponeva un minestrone indimenticabile. Sulle alture i ristoranti “Righi” e “Montallegro” erano l’ideale meta per una gita fuori porta, a ponente, a Sampierdarena erano tre le mete: il “Giunsella”, Il “Toro” chiamato così perché il padrone era stato un buon lottatore e nelle sale erano appese foto di antichi atleti e la “Bottiglieria Montecucco” dove si poteva mangiare un’ottima ventresca.
A Levante , oltre il maestoso “Lido d’Albaro” per tasche danarose, c’era il “ristorante S. Giuliano” con piatti di pasta con le arselle accompagnate dal bianco di Coronata. Alcuni di questi posti esistono ancora, quasi tutti sono scomparsi com’ è scomparsa quella cucina, sostituita in buona parte da quella esotica, dai fast food e dai panini. Qualcuno ancora resiste e quando capita di incontrare quella vecchia cucina di un tempo non è solo la gioia del palato ma la possibilità di ricongiungersi con sapori e odori che fanno parte della nostra storia.